Pensieri sparsi sulla libertà di mostrare il proprio corpo, sulla diffusione non consensuale di immagini intime, e sul perché non chiamarlo Revenge porn.
Una maestra d'asilo, qualche giorno fa, è stata licenziata dopo che un suo video erotico è stato inviato, senza consenso, dal suo ex fidanzato alla chat del calcetto. Il video in questione è diventato presto di dominio pubblico, passando, di condivisione in condivisione, prima alla moglie di uno dei partecipanti alla chat, poi ad altre mamme, fino ad arrivare alla dirigente scolastica, che decide così non solo di licenziare la maestra ma anche di renderne pubbliche le motivazioni.
Questa vicenda è una triste conferma di quanto la narrazione degli episodi di violenza sia ancora fortemente legata alla colpevolizzazione delle donne, specie se si tratta di ciò che attiene alla sfera sessuale. Alla base di questo modo di narrare episodi del genere c'è, da un lato, una stigmatizzazione del sesso in generale e, in particolare, una visione patriarcale del corpo femminile, che oscilla tra iper sessualizzazione e castità a piacimento dello sguardo maschile.
Dall'altro lato, una parte del giudizio che mettiamo nel racconto delle violenze passa proprio per il linguaggio e la scelta delle parole.
Con revenge porn si intende la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e destinati a rimanere privati, senza il consenso della persona rappresentata. Ma questa denominazione, seppure ormai comunemente entrata nel nostro modo di raccontare e condannare questo fenomeno, rischia di alimentare la colpevolizzazione di chi lo subisce, deresponsabilizzando la persona che compie il crimine e assumendone addirittura lo sguardo.
Utilizzare la parola "vendetta" ci riporta a un danno inflitto per pareggiare un oltraggio subìto. Allo stesso modo la parola "porno" evoca una condanna generalizzata alla sessualità, che può passare anche dalla condivisione di materiale videofotografico, criticandone la matrice. Inutile dire, inoltre, come nel porno ci sia il consenso delle attrici e attori e una manifesta finalità di diffusione. Entrambi i significati, quindi, distolgono l’attenzione dalla violenza agita, sostenendo e rafforzando le narrazioni giustificatrici.
Possiamo immaginare che la dirigente scolastica abbia deciso di prendere il provvedimento iniquo nei confronti della donna non avendo neanche individuato l'atto violento e le ripercussioni che questo può avere in chi lo subisce, ma preoccupandosi soltanto di condannare un comportamento percepito come scandaloso per una maestra d'asilo, rappresentazione di cura e maternità.
Nello suo studio Revenge Porn and Mental Health: A Qualitative Analysis of the Mental Health Effects of Revenge Porn on Female Survivors, Samantha Bates esamina l'impatto che questo tipo di violenza può generare a livello psicologico: disturbo post-traumatico da stress, ansia, depressione, menomazioni delle funzioni cognitive, perdita del controllo, paralisi, profonda sfiducia nell’altro, senso di vergogna, fino spesso ad arrivare al suicidio.
È necessario inoltre affrontare la questione utilizzando un approccio di genere. Infatti, da una ricerca del 2017 dell'European Institute for Gender Equality, emerge che fino al 90% delle persone che subiscono revenge porn sono donne.
Durante il lockdown della scorsa primavera, un'inchiesta di Wired aveva rivelato la presenza di circa 21 canali su Telegram, con quasi 50mila iscritti, in cui venivano diffusi foto e video privati senza il consenso delle interessate, per lo più donne.
Anche la percezione a livello pubblico dell'esposizione di immagini esplicite varia molto a seconda del genere, rappresentando spesso per le donne motivo di vergogna e senso di colpa.
Come nel caso della maestra d'asilo, le conseguenze possono essere pesanti anche a livello professionale, comportando il licenziamento e la perdita di credibilità nell'ambiente lavorativo. Come se alle donne non fosse permesso fare sesso, o, peggio, come se alle donne fosse permesso fare sesso sotto lo sguardo maschile, ma una volta scoperto in pubblico possa suscitare un incredibile scandalo.
In Italia, lo scorso anno è stata approvata una legge che istituisce il reato di revenge porn: il Codice Rosso (legge 19 luglio 2019, n. 69). Chi lo commette può essere accusato di molestia, violazione della privacy, diffamazione e istigazione al suicidio. Questa norma, tuttavia, non è priva di controversie che partono già dall'accezione di "immagine sessualmente esplicita", il cui concetto appare molto soggettivo e che dovrebbe sempre tenere conto della percezione della donna interessata. Sebbene si tratti di un'importante riforma e una tutela aggiuntiva per le donne, come spesso accade, il rischio di mitigare e contrastare un fenomeno così radicato soltanto a livello legislativo e sanzionatorio è dietro l'angolo e non passa neanche questa volta per l'educazione e la corretta informazione.
Iniziamo quindi a informarci, a combattere la retorica del senso di colpa. Rivendichiamo la libertà di scambiare foto o video consapevolmente, di autodeterminarci mostrando i nostri corpi e la nostra voglia di provare piacere. Iniziamo a non chiamarlo revenge porn ma violenza, affinché nessuno possa più dire "poteva pensarci prima di inviare la foto, se l'è cercata".
Anita Leonetti
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