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  • Immagine del redattoreLe Tre Ghinee

Giornata delle donne nella scienza: intervista a Edwige Pezzulli, astrofisica.

L’11 febbraio è la giornata delle donne nella scienza. Per celebrarla abbiamo deciso di intervistare un’astrofisica: Edwige Pezzulli.




Parlaci un po’ di te

Sono cresciuta nella periferia est di Roma, in una famiglia che mi ha insegnato a essere libera e curiosa. Ho deciso di diventare un’astrofisica perché mi sembrava il modo migliore per capire la Natura, dall’infinitamente piccolo all'infinitamente grande e così, mi sono ritrovata fin da subito a lavorare sui buchi neri supermassicci primordiali, cioè quei buchi neri che erano nei cuori delle primissime galassie dell’Universo. Sono stata visiting researcher presso l'Institut d'Astrophysique de Paris e l'Università di Salonicco, dove ho portato avanti un progetto interdisciplinare sui modelli di visualizzazione dei cambiamenti climatici con PRACE (Partnership for Advanced Computing in Europe). Col passare del tempo, il mio entusiasmo è cresciuto e ho iniziato a raccontare alle altre persone quello che stavo imparando - perché il sapere scientifico è un bene comune, da produrre ma anche da ridistribuire. Ho iniziato così ad appassionarmi sempre di più alla comunicazione scientifica. Attualmente sono assegnista di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica e divulgatrice scientifica, autrice di laboratori e workshop e curo progetti di intersezione tra scienza, società e questione di genere. Collaboro con la RAI come autrice e conduttrice di Superquark+ e sono autrice di programmi di approfondimento scientifico per Rai Cultura e Rai2. Assieme a cinque colleghe, ho pubblicato il libro “Apri gli occhi al cielo” (Mondadori, 2019), selezionato tra i finalisti del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica e nello stesso anno vinto il Premio Nazionale per giovani ricercatrici e ricercatori GiovedìScienza. Sono una delle fondatrici di WeSTEAM, una rete di giovani scienziate impegnate nella promozione del sapere scientifico in un’ottica inclusiva e plurale.


In Italia solo il 18,9% delle laureate ha scelto discipline STEM, secondo te perché?

Se i numeri delle donne nelle STEM sono bassi, in alcune facoltà le percentuali femminili raggiungono dei minimi davvero significativi. Questo avviene in genere nelle discipline considerate storicamente per uomini, per esempio la fisica e le cosiddette scienze dure, oppure l’ingegneria e l’informatica. Gli stereotipi e i pregiudizi di genere che pervadono la nostra cultura da secoli, infatti, attribuiscono all’uomo delle capacità logico-razionali, mentre alla donna una naturale predisposizione all’emotività, caratteristica che la renderebbe poco portata alla scienza, in particolar modo alle scienze esatte. Questi schemi mentali, che possono sembrare delle categorie tutto sommato astratte e innocue, hanno degli effetti concreti nel mondo reale, per esempio condizionando proprio il numero di donne pronte a scegliere un percorso di studi in ambito scientifico. Si pensi alla parola informatica, che secondo diversi studi è associata spesso alla parola nerd, una persona non attraente, impacciata, socialmente imbarazzante ed estremamente interessata ai computer (come definita dal Cambridge Dictionary). Quante donne si rappresenterebbero serenamente in un nerd?

Il problema degli stereotipi coinvolge la questione di genere non solo direttamente: le persone che studiano materie STEM vengono solitamente descritte come geniali, illuminate, dotate di un’intelligenza fuori dalla norma, e i dati ci dicono che le bambine iniziano a pensare di essere meno intelligenti dei compagni maschi già in età prescolare, a partire dai 5 anni. È evidente che la somma di questi due fattori abbia come effetto quello di creare una segregazione orizzontale: le ragazze studiano, lo fanno molto (sono quasi il 60% della popolazione studentesca) e bene (raggiungono mediamente risultati più alti dei colleghi) ma il loro contributo viene relegato per lo più alle aree umanistico-sociali del sapere.


Quanto è duro il soffitto di cristallo per le scienziate?

A quella orizzontale, si somma la questione della segregazione verticale: più saliamo nelle posizioni di prestigio accademico, più le donne scompaiono. Se guardiamo al numero di Nobel in campo scientifico assegnati a ricercatrici, la percentuale si aggira attorno al 2-3%. Un soffitto di cristallo ancora più duro, visto che copre una scalinata dove le donne non hanno potuto nemmeno camminare per secoli, ma che rappresenta un fenomeno trasversale nell’accademia. Lo ritroviamo, per esempio, in ambito umanistico, dove le donne rappresentano da molto tempo la maggioranza. Già nel secondo dopoguerra le studiose in aree psico-pedagogiche e storico filosofiche erano il doppio degli studiosi, eppure ancora oggi la percentuale di professoresse ordinarie è solo del 25%.

Parlando di rappresentatività, quali sono gli stereotipi più fastidiosi riguardo il personale scientifico?

La persona che fa scienza è in genere rappresentata come un uomo, bianco, geniale e solitario. Nell’immaginario comune, Albert Einstein ha prodotto la teoria della relatività generale chiuso in una stanza, da solo, davanti alla lavagna in preda a una febbre quasi mistica che ha palesato a lui, e solo a lui, la natura dell’Universo.

Non c’è mito più errato di una scienza individuale: la scienza è per sua natura un soggetto collettivo, costruita e animata da gruppi di molteplici individui, scienziate e scienziati che cooperano, mettono insieme forze e punti di vista, si ascoltano. Privare la scienza della sua dimensione plurale ne distorce profondamente l’essenza, al pari del presentarla come colei che salverà il mondo (che possiamo invece salvare solo noi). Narrazioni di questo tipo, infatti, ne alimentano una visione sovrumana, quasi avessimo a che fare con una creatura mitologica. Sollevare la scienza da terra, portarla a un livello quasi intangibile, sull’olimpo degli intelligenti solitari, non fa che alimentarne il distacco con le persone comuni, rendendola ancora più lontana di quanto non sia già.


Perché la parità di genere è importante anche in ambito scientifico?

Spesso immaginiamo la scienza come un sapere neutrale, indipendente da chi questo sapere lo produce e dai contesti in cui viene generato. Forse non ci abbiamo mai pensato, ma la scienza è un prodotto umano e come tale risente dei valori di chi la costruisce e del contesto storico e geografico in cui è prodotta.

C’è di più: nella scienza non ci sono valori imprescindibili da rispettare o obiettivi essenziali da perseguire. Siamo noi a determinarne valori e obiettivi, a scegliere cosa ritenere interessante, che esperimenti mettere in piedi e a quali domande provare a dare una risposta. Per questo è importante che le comunità scientifiche siano plurali: se ogni persona ha degli occhi in grado di osservare solo una piccola porzione di mondo, cioè il mondo secondo il suo specifico punto di vista, allora dobbiamo impegnarci a costruire comunità scientifiche il più diversificate possibili, perché a più prospettive corrisponderà un sapere scientifico più ricco.

Come nasce l'idea di WeSteam? Quali sono i vostri progetti presenti e futuri?

WeSTEAM nasce dall’esigenza di creare del movimento attorno alla questione di genere nella scienza. Come fondatrici, sentivamo il bisogno non solo di discutere di questi temi, ma anche di proporre riflessioni condivise all’interno della comunità scientifica stessa. Con WeSTEAM, infatti, cerchiamo di operare su due livelli complementari. Portiamo avanti progetti di divulgazione scientifica focalizzati sugli stereotipi e i pregiudizi di genere nella scienza, con l’obiettivo di offrire prospettive differenti e aumentare così il numero di donne in questo ambito. Ma pensiamo che la crescita numerica di per sé non sia sufficiente: se per entrare in un settore è necessario sposare la logica e la dimensione culturale di quel luogo, la prospettiva femminile diventa secondaria. È necessario quindi lavorare in parallelo affinché ci sia una riflessione culturale profonda all’interno della comunità scientifica, cominciando proprio dalla sensibilizzandolo sul ruolo che la pluralità potrebbe avere nella produzione del sapere scientifico stesso.

Cosa consiglieresti alle bambine e alle adolescenti che sono interessate alle materie scientifiche?

Stephen Hawking diceva di guardare il cielo e non i propri piedi. La scienza aiuta ad alzare la testa, e lo fanno ancora di più la fisica e l’astrofisica. L’Universo, infatti, può aiutarci a ripulire gli occhi e ampliare la vista, due ricchezze che, una volta guadagnate, non potranno più esserci sottratte. Il mio consiglio è proprio quello di guardare in alto, di puntare alle stelle con la pancia e la testa. E come disse Donna Theo Strickland, premio Nobel per la fisica nel 2018, a una giovane scienziata: ”Se qualcuno la pensa diversamente da te, comincia a credere che siano loro ad avere torto e sia tu quella che ha ragione e vai avanti. È stato sempre questo il mio modo di pensare.”



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