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  • Immagine del redattoreLe Tre Ghinee

Punto G – riflessioni e lotte femministe al G8 di Genova

Aggiornamento: 1 dic 2021




Da Seattle a Praga, da Nizza a Göteborg fino a Genova, le manifestazioni si susseguivano al grido unanime di “Un altro mondo è possibile!” slogan ripetuto davanti ai palazzi dei vertici internazionali, dove si decidevano le sorti economiche e sociali del mondo.

Un altro mondo sarebbe stato possibile, se questo grido non fosse rimasto non solo inascoltato ma anche represso forzatamente dalle istituzioni, attraverso il braccio armato della polizia. È stato silenziato sotto i colpi dei manganelli, sotto ai ritornelli fascisti del “uno, due, tre, viva Pinochet”, sotto all’odore di sangue e al rumore sordo del proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani.


A Genova, nei giorni tra il 19 e il 22 Luglio 2001, migliaia di manifestanti, radunati in occasione del summit del G8, e il mondo intero hanno assistito sgomenti a quella che è stata più volte definita come “la più grande violazione dei diritti umani in un Paese democratico dal dopoguerra in poi” (Amnesty International). E proprio qui, tra le cariche della polizia a piazza Manin contro i manifestanti pacifisti della rete Lilliput, gli orrori della scuola Diaz, fino ai proiettili di piazza Alimonda, quel movimento internazionale che metteva in discussione l’ordine mondiale delle cose e che si interrogava sulle cause delle disuguaglianze, la devastazione ambientale e il peso delle multinazionali nella politica, cambiava irreversibilmente, fino a soccombere sotto a nuove priorità, come la politica estera di G.W. Bush e l’incubo degli attentati terroristici.


A distanza di vent’anni dai fatti di Genova, si avverte ancora molta confusione mediatica e molta informazione parziale di quello che in realtà si respirava nell’aria già da un po’.

A Napoli, nel marzo del 2001, in occasione del Global Forum dell’Ocse, andarono in scena alcune agghiaccianti avvisaglie di quello che sarebbe successo di lì a pochi mesi. Cariche concentriche di carabinieri, polizia e finanza, arresti di massa, pestaggi gratuiti. Da quei giorni fino alle giornate di Genova, non si parlò quasi per nulla delle ragioni di chi si preparava a contestare, bensì di allarmi e sicurezza. Si diffusero notizie false di guerriglia urbana pronta ad attaccare, bombe molotov nascoste e pronte all’uso, addirittura di cani addestrati per aggredire le forze dell’ordine.


Tutta quella tensione, anche a livello internazionale, costruita ad arte per fomentare gli scontri, per legittimare i soprusi e le violenze. E per spostare l’attenzione dalle motivazioni della contestazione, in un movimento mosso da sentimenti e pratiche per lo più pacifiste.

A manifestare a Genova c’erano tutti: i pink sostenitori di azioni radicali non violente, le tute bianche che propugnavano la disobbedienza civile e il blocco nero che sfasciando vetrine e bancomat intendeva colpire i simboli materiali del capitalismo.

C’erano centri sociali, ONG, sindacati, forze cattoliche, ambientaliste. C’erano i movimenti femministi, fondamentali per una riflessione sul cambiamento in ottica di genere.


Nel giugno 2001, a un mese dai fatti del G8, oltre 140 organizzazioni femministe si riunivano in Punto G – Genova, genere, globalizzazione, una serie di incontri di riflessione contro lo sfruttamento della globalizzazione neoliberista come espressione del sistema patriarcale.

A partire dall’ideologia di Vandana Shiva e dell’ecofemminismo, si contestava la monocultura dettata dalla globalizzazione come origine e causa di ogni forma di sfruttamento, da quello ambientale a quello sociale, a quello dei corpi delle donne.

L’importanza dei movimenti femministi all’interno del dibattito sul sistema economico capitalista e sulla globalizzazione viene ancora oggi sottovalutata, come spesso accade quando si parla della voce delle donne.

«Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone» diceva Audre Lorde, quindi bisognava analizzare le dinamiche sociali partendo da un punto di vista differente, scevro da logiche di potere e sopraffazione, ma che vedeva nel dialogo e nel confronto la chiave per smantellare gli schemi esistenti e sovvertire le logiche dominanti. Per cambiare prospettiva occorre quindi cambiare le parole, gli slogan, le strategie: alla violenza è necessario rispondere con la nonviolenza, con un linguaggio non militarizzato, ma fatto di simboli e legami. Un linguaggio femminista.


È quel “guardare il mondo con gli occhi di donna” da cui si era uscite dalla Conferenza Mondiale delle donne del 1995 a Pechino, che avrebbe potuto ispirare il cambiamento, ma che è stato sepolto sotto alle macerie interne agli stessi movimenti, il marxilismo degli ambienti politici, una crasi tra marxismo e maschilismo, per dirla con le parole di Eleonora Forenza (ex europarlamentare e partecipante a Punto G). e alle macerie esterne, tra le repressioni e le violenze istituzionali.


Oggi, immerse in una crisi socio-sanitaria che fatica a lasciarci e che ha evidenziato in maniera drammatica le disuguaglianze tipiche del sistema che abbiamo alimentato da decenni, ricordare i fatti di Genova e i movimenti che hanno animato le manifestazioni appare quanto mai necessario e ci permette di affacciarsi a quel mondo possibile ma mai realizzato che si urlava nelle piazze.



Dopo Genova, i processi:


  • Il carabiniere Mario Placanica, responsabile degli spari che hanno ucciso Carlo Giuliani, è stato prosciolto per uso legittimo delle armi e legittima difesa. L’investimento del corpo di Giuliani successivo allo sparo è stato motivato come tentativo di fuga e le lesioni non sono state valutate come fatali.

  • Per i fatti della scuola Diaz in primo grado sono stati condannati agenti per reati che vanno dal falso ideologico alle lesioni aggravate. In secondo grado e in Cassazione ci sono state condanne anche per i vertici della polizia. Nel 2015 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la mancanza di una norma che prevede il reato di tortura (introdotto nel 2017).

  • Per i fatti della caserma di Bolzaneto l’assenza del reato di tortura nell’ordinamento ha portato in primo grado a 15 condanne (su 45 imputati) per reati di altra natura, come per esempio abuso d’ufficio. In appello ci sono state 44 condanne, ma molti reati erano caduti in prescrizione. Sette imputati sono stati condannati penalmente. La cassazione ha emesso 7 condanne e 4 assoluzioni. Ha confermato le prescrizioni riducendo i risarcimenti dovuti in sede civile. Nel 2017, 59 vittime dei pestaggi hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia a risarcire 48 dei ricorrenti (gli altri 11 avevano ritirato il ricorso dopo aver concordato con lo stato un indennizzo). Nella sentenza la Corte ha sottolineato che nessuno dei responsabili ha fatto un solo giorno di carcere.

  • Venticinque manifestanti sono stati imputati per devastazione e saccheggio. Dieci di loro sono stati condannati con pene che vanno dai 6 ai 15 anni di carcere.



Video promo del libro di Monica Lanfranco Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo. PuntoG. Il femminismo al G8 di Genova (2001-2021)



RIFERIMENTI


Per maggiori info ascolta il podcast “Limoni” curato da Annalisa Camilli su Internazionale.




Anita Leonetti


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