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Goliarda Sapienza e la virtù della disobbedienza

Aggiornamento: 22 nov 2021


"Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartarle non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le piú marce come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione." (L'Arte della Gioia, Pag. 134)


Goliarda Sapienza, scrittrice ed attrice nata a Palermo nel 1924, è stata un’artista eclettica con una vita straordinaria per una donna della sua generazione, a partire dall’infanzia.

La madre, Maria Giudice, è una figura cruciale della storia del primo Novecento: socialista, tra le prime sindacaliste e femminista ante litteram, giornalista, si dedicò per tutta la sua vita a battaglie per i diritti dei lavoratori e lavoratrici, finita in carcere numerose volte per attività sovversiva come mandante morale di numerosi scioperi.

Il padre, Giuseppe Sapienza, avvocato, sindacalista e membro dell'Assemblea Costituente della Repubblica italiana è un Socialista libertario, noto a Catania come “l'avvocato dei poveri”, distintosi per il vivo antifascismo e per le battaglie antimafia. Partecipò all'organizzazione della fuga di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini dal carcere romano di Regina Coeli avvenuta il 24 gennaio 1944.

I genitori non mandarono a scuola i figli per evitare che venissero a contatto con l’educazione fascista e si dedicarono alla loro istruzione personalmente. Goliarda cresce in quel clima anticonformista e libero appassionandosi alla letteratura e al teatro dei pupi che vede nelle strade di Palermo.


Il padre Peppino incoraggia le sue inclinazioni e la iscrive -a sua insaputa- all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma di Silvio D’Amico a Roma dove viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione e debutta a Teatro, nel 1942, con l’interpretazione di Dina nella pièce Così è (se vi pare) di Pirandello.

Le rigide regole dell’Accademia non si confanno al suo spirito libero e così Goliarda compartecipa alla creazione di una compagnia indipendente, chiamata T45, che ha grande successo. Durante una rappresentazione di Gioventù malata di Ferndinand Bruckner, però, la polizia fa irruzione nel teatro e interrompe lo spettacolo perché giudicato scandaloso e violento e Goliarda abbandona definitivamente al teatro per dedicarsi al cinema con il compagno, il regista Francesco Maselli.

Dopo aver recitato in ruoli minori scopre che la sua vera vocazione è quella di silenziosa «cinematografara» (così amava definirsi), e inizia a lavorare come aiuto regista, sceneggiatrice, doppiatrice e assistente agli attori: con Zavattini e Visconti, ma soprattutto nei i film e nei documentari del compagno Maselli, impegno raccontato nei suoi diari pubblicati postumi [1].


La necessità di scrivere emerge in seguito all’evento tragico della morte della madre, avvenuta il 5 febbraio 1953. Il distacco da Maria traumatizza Goliarda, conducendola a una ricerca quasi ossessiva dell’immagine materna, in un processo di recupero della memoria che segna per sempre il suo stile narrativo.

Le sue poesie di esordio rievocano le figure della sua famiglia e il vissuto dell’infanzia.

Negli anni '50 Goliarda si cimenta anche nella prosa e scrive una serie di racconti, raccolti poi in Destino coatto (Empiria, 2002), ai quali fa seguito il progetto del ciclo memoriale dell’«autobiografia delle contraddizioni». Lettera aperta (1967), Il filo di mezzogiorno (1969), sono un tentativo del recupero dei ricordi a scopo terapeutico, parte dell’analisi intrapresa dopo le devastanti sedute di elettroshock a cui era stata sottoposta in seguito ad un fallito suicidio.

"Ricordare è tutto: l’etica fondamentale della vita", scrive nei suoi taccuini, poi raccolti ne "Il vizio di parlare a me stessa" (Einaudi,2011).

Nella memorabile intervista di Anna Amendola e Virginia Onorato (1994) Goliarda ci incanta con il racconto della sua vita e del suo mondo rendendoci confidenti più che spettatrici.


Il suo grande romanzo, L’arte della gioia, ha richiesto quasi dieci anni di lavoro: Goliarda si rinchiude nella sua casa di Gaeta e trascorre le sue giornate nella creazione del suo unico personaggio di finzione, Modesta, una donna unica nel panorama della letteratura italiana.

Modesta, nata poverissima nel 1900 in un angolo sperduto della Sicilia, compie un'ascesa sociale e culturale straordinaria. Bambina violentata dal padre e privata dell'affetto materno, entrerà a far parte di una famiglia aristocratica e arriverà ad amministrarne il patrimonio, a occuparsi – lei donna – di affari e calcoli, compiendo anche azioni criminose. Diverrà anche donna colta, appassionata di arte, filosofia ed accanita lettrice protagonista di una lotta politica che la condurrà all'esperienza del carcere.

Modesta, il cui nome è chiaramente ironico, è una donna che contravviene al ruolo femminile che la società contemporanea si aspetta da lei, è un personaggio scabroso sia sul piano erotico (scopre presto l'autoerotismo e ha varie esperienze etero ed omosessuali) che su quello intellettuale.


La scrittrice viene ignorata dagli editori e dai critici: dopo un’infinita serie di rifiuti il romanzo viene dimenticato in una soffitta, finché, grazie alla tenacia di suo marito, Angelo Pellegrino, viene pubblicato parzialmente nel 1994 presso Stampa Alternativa che nel 1998 propone la versione integrale, due anni dopo la sua morte.

Ma il successo di Goliarda Sapienza esplode in Italia dieci anni dopo, a seguito della scoperta del capolavoro all’estero: la casa editrice francese Viviane Hamy pubblica infatti per prima l’edizione integrale tradotta de L’Art de la joie (2005); segue la pubblicazione tedesca In den Himmel stürzen (2006), quelle spagnole L’art de viure (2007) e El arte del placer (2007) fino ad arrivare all’edizione italiana di Einaudi nel 2008.


Dopo L’arte della gioia, Goliarda scrive altri capitoli dell’«autobiografia delle contraddizioni» decidendo di narrare la sua esperienza catartica in prigione: ne L’università di Rebibbia (Rizzoli, 1983) e Le certezze del dubbio (Pellicanolibri, 1987) la parentesi carceraria viene rievocata come un momento di formazione, un’ulteriore occasione di crescita e di scoperta di se stessa e del mondo.

"Sono come ripulita, il bagno di vita fatto a Rebibbia, mi ha come purificata: taglio netto col mondo dei salotti, dei discorsi sofisticati e tutto il resto" [2].




[1] Il vizio di parlare a me stessa, Einaudi, 2011 e La mia parte di gioia, Einaudi, 2013

[2] Il vizio di parlare a me stessa, p. 120


Venusia Vega

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