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  • Immagine del redattoreLe Tre Ghinee

Buon compleanno Artemisia!

Aggiornamento: 18 mar 2021


Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, Connecticut, Stati Uniti
"Autoritratto come suonatrice di liuto" di Artemisia Gentileschi

Oggi Google dedica il suo doodle ad Artemisia Gentileschi, pittrice barocca ed icona femminista, nata a Roma l’8 luglio 1593, raccontata così da Anna Banti nella suo romanzo biografico Artemisia (1947):

«Nata nel 1593, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovanetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i due sessi. Le biografie non indicano l’anno della sua morte».

Artemisia sviluppò le sue capacità artistiche alla bottega del padre, Orazio, pittore influenzato da Caravaggio, che si accorse ben presto del talento straordinario della figlia:

«Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere» ( lettera alla granduchessa di Toscana, 3 luglio 1612) .

Orazio, mise Artemisia sotto la guida del pittore Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l'œil con il compito di educarla all’uso di questa tecnica. Tassi, dopo diversi approcci, tutti rifiutati, approfittando dell'assenza di Orazio, violentò Artemisia, nel 1611. Questo tragico evento influenzò in modo drammatico la vita e l'iter artistico della Gentileschi.

Artemisia affrontò un processo per stupro nella roma papalina del ‘600 e descrisse l'avvenimento con parole tremende:

«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne»

Artemisia, obbligata numerose volte a visite ginecologiche lunghe e umilianti, durante le quali il suo fisico fu esposto alla morbosa curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio incaricato di redigerne il verbale: le sedute, in ogni caso, accertarono un'effettiva lacerazione dell'imene avvenuta quasi un anno addietro.

Per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese, le autorità giudiziarie disposero persino che la Gentileschi venisse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura, così da sveltire - secondo la mentalità giurisdizionale imperante all'epoca - l'accertamento della verità.

Lei, tuttavia, voleva vedere riconosciuti i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a patire, non ritrattò la sua deposizione.


Alla fine le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» lo condannarono all'esilio perpetuo da Roma, anche se lo smargiasso non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni prezzolati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti». Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.


Collezione Graf von Schönborn, Pommersfelden
Susanna e i Vecchioni

Per la nostra campagna #motoodico abbiamo scelto proprio la prima opera firmata a suo nome “Susanna e i vecchioni”, che raffigura un episodio i dell'Antico Testamento narrato nel Libro di Daniele: la casta Susanna, sorpresa al bagno da due anziani signori che frequentavano la casa del marito, è sottoposta a ricatto sessuale: o acconsentirà di sottostare ai loro appetiti o i due diranno al marito di averla sorpresa con un giovane amante. Susanna accetta l'umiliazione di una ingiusta accusa; sarà Daniele a smascherare la menzogna dei due laidi anziani.

Molti dei dipinti superstiti di Artemisia si concentrano su una protagonista femminile. La storia di Giuditta è apparsa più volte nella sua arte.



Intorno al 1611, completò la prima versione di "Giuditta che decapita Oloferne", che raffigura Giuditta nell'atto di salvare il popolo ebraico uccidendo il generale assiro Oloferne; il dipinto mostra un primo piano di questa scena brutale - Giuditta che taglia la gola a Oloferne mentre la sua ancella aiuta a tenerlo fermo. Poco dopo aver terminato quest'opera (intorno al 1613), artemisia dipinse "Giuditta e la sua serva", che mostra la coppia dopo la morte di Oloferne, con la cameriera che tiene in mano un cesto contenente la sua testa mozzata.

Nel 1625 dipinse una seconda versione di "Giuditta che decapita Oloferne"; quest'opera trasmette un senso di pericolo e di mistero attraverso l'uso della luce e dell'ombra, e mostra Giuditta e la sua serva che cercano di fuggire dalla tenda di Oloferne con la testa mozzata. Gentileschi ha affrontato anche altri noti personaggi della storia e della mitologia con opere come "Minerva" (1615) e "Cleopatra" (1621-22).


Le due Giuditte

Questa seconda opera fu realizzata per Cosimo II de' Medici, ma per il suo crudo realismo fu disprezzata e relegata in un angolo buio di Palazzo Pitti; Artemisia dovette quindi ricorrere alla mediazione di Galileo Galilei, con il quale era in amichevoli contatti, per ricevere il compenso pattuito [1].

L'analisi del quadro, in chiave psicologica, ha portato alcuni critici contemporanei a vedervi il desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale subita da Agostino Tassi.

Scrive Anna Banti: «Le sue armi furono: dipinger sempre più risentito e fiero, con ombre tenebrose, luci di temporale, pennellate come fendenti di spada. Imparino queste femminette, questi pittorelli invaghiti di delicature».

Venusia Vega


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